Matriarcato come assenza di gerarchia

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MATRIARCATO COME ASSENZA DI GERARCHIA

civilta’ femminili / ginocrazie

di marisa distefano

La parola “matriarcato” ha sempre provocato infinite diatribe e polemiche. Noi qui non ce ne occuperemo. Dovremmo invece compiere lo sforzo di immaginare la parola “matriarcato” non come una sorta di “patriarcato femminile”, ma piuttosto come un termine indicante società ginocratiche o civiltà femminili in cui il potere non si manifestasse nelle forme strutturate e rigidamente gerarchizzate proprie delle società patriarcali, ma sotto forma di riti che celebravano il culto della “Grande Madre” (MadreTerra, madre Cielo/ Luna/ Notte, ecc.)

Archetipo della Grande Madre

La psicoanalisi, quando parla di “immagine primordiale” o di “archetipo della Grande Madre”,non si riferisce a una entità concretamente esistente nello spazio e nel tempo, ma ad una immagine interiore che agisce nella psiche umana. Questo fenomeno psichico ha la sua espressione simbolica nelle raffigurazioni della Grande Dea Femminile nell’arte e nei miti di tutto il mondo.

L’emergere di tale archetipo e la sua attività possono essere osservati nel corso di tutta la storia umana: nei riti, nei miti e nei simboli dell’umanità primitiva, così come nei sogni nelle fantasie e nelle raffigurazioni creative di persone sane e malate del nostro tempo (come risulta evidente in tanti disegni e dipinti di schizofrenici). La divinità maschile (“ Dio”) che attualmente domina in tutte le grandi religioni monoteiste e patriarcali è solo una trasformazione recente ( 3000 a.C.) del culto della Dea che ha caratterizzato la civiltà matriarcale/ femminile durante un ben più lungo periodo – documentato dal 30.000 a.C. fino a circa il 1500 a.C.
La Dea preistorica, nei suoi diversi aspetti, esprime una cultura omogenea, pacifica,  creativa e di grande sintonia con la natura. In questa lunghissima “civiltà della Vulva” non c’è quasi traccia di figure maschili: le decine di migliaia di ritrovamenti archeologici effettuati in tutto il mondo sono prevalentemente simboli e statuine femminili ed animali. Del resto, anche le moderne ricerche biologiche sul genoma umano hanno dimostrato che il DNA femminile (cromosoma X) risale ad oltre 143.000 anni fa, ed è quindi di quasi centomila anni più antico di quello maschile (cromosoma Y), comparso sul nostro pianeta circa 59.000 anni fa.

Oggi, riteniamo certo che il patriarcato – schema pressoché universale della società umana – si fonda su due scoperte essenziali dell’antichità: la successione piuttosto recente dell’agricoltura maschile (con l’aratro) a quella femminile (con la marra) e, più tardi, la sconvolgente scoperta del ruolo maschile nel processo della fecondazione. La degradazione dell’antica sovrana ha inizio con la scoperta della paternità. Prima di questa certezza biologica, né il possesso delle tecniche agricole, né, poi, quello della terra, portarono alla caduta totale del potere e della venerazione del sesso femminile, considerato sacro

In questo percorso dalla sovranità alla caduta del Femminile lo studio delle tecniche e dei miti ci fa da guida:“…Ishtar e Cibele, Demetra e Cerere, Afrodite, Venere e Freya non sono che delle personificazioni tarde delle antiche dee della terra la cui fecondità produceva la fertilità dei campi.Il sesso di queste divinità rivela che, in origine, l’agricoltura e la donna erano strettamente legate. Quando l’agricoltura diventò l’occupazione principale dell’umanità, le dee della vegetazione regnarono senza concorrenti. La maggior parte dei primi dei appartengono al sesso femminile; la promozione di divinità maschili allo stesso rango fu senza dubbio il riflesso, fra le divinità, della vittoria del patriarcato”. (Will Durant “Storia della Civiltà: l’Oriente” Mondadori ed.).Abbiamo, dunque, una ricchissima teogonia femminile con cui confrontarci; chi negli anni ’80 parlava di “miseria femminile” mettendo l’accento sull’assenza di un mondo simbolico di riferimento per le donne, rispetto al mondo maschile, ricco dei simboli che –nei secoli-si è costruito, certo dimenticava di guardare a quel mondo di miti, simboli ed archetipi che tuttora fecondano l’inconscio collettivo e vivono dentro ognuna di noi.

STORIA DI ISIDE

“…Inizialmente Iside non era una dea ma solo la serva del più grande dei Faraoni, Rà, l’uomo-dio. Ogni mattina, Rà saliva sulla barca solare che, a mezzogiorno, lo portava ad un’altra imbarcazione che, a sua volta, al crepuscolo lo portava alla Regione degli Inferi. Lungo la strada si vedeva sbarrare il cammino da Apopi, il grande serpente che provoca le eclissi di sole e allora bisognava battere le mani, dire le preghiere e suonare una musica assordante come per spaventare i coccodrilli del Nilo. E Apopi, ferito dai raggi del dio dorato, si coricava di nuovo in fondo agli abissi. Questo avveniva quando Rà abitava ancora sulla terra ed era sottoposto alle leggi dell’invecchiamento, come ogni forma vivente. E quando giunse al declino, carico del peso degli anni, Iside, che aspettava la sua ora, si alzò nell’ombra.

Con la saliva che colava dalla bocca del vecchio dio, impastò un po’ di terra a immagine della Serpe Sacra, l’animò con il suo soffio e recitò la formula magica che dà la vita. Quindi, le fece mordere Rà al tallone. Qualche tempo dopo, venne a guarirlo con tutta la sua scienza di dottoressa sapiente. Ma per riuscirci bisognava, secondo le alte leggi della Conoscenza, pronunciare il nome del malato. E Rà, che porta tanti nomi, in realtà ne ha uno solo, onnipotente e segreto,  che contiene l’essenza stessa del suo Essere. Saperlo e dirlo equivale a possedere il suo potere (…non pronunciare il nome di Dio invano!….) Rà, vinto, lo rivelò a Iside che gli diede, sì, la salute ma divenne, con questo stratagemma, dea ed onnipotente…” In questo mito si ritrovano parecchie eredità che, dall’Egitto, passeranno al Mosaismo giudaico: la perfidia femminile, la serpe sua complice ed il segreto sacro del nome divino che non deve essere pronunciato.  Il dato significativo che emerge, a questo punto, sembra questo: il patriarcato nascente cerca di screditare il Diritto delle Madri, cioè il vecchio potere di Neith e della grande dea agraria Iside. In seguito, l’invenzione della marra e dell’aratro saranno una prerogativa di Osiride,che lascia alla Moglie-Sorella il solo dominio delle erbe medicinali.*

L’identificazione di Apopi con Pitone, il serpente matriarcale, e di Rà con l’Apollo asiatico, il dio della vendetta che vince Apopi senza poterla distruggere, è pure fuori dubbio. Quando, poi, Rà diventa definitivamente dio, lascia la terra e stabilisce la sua residenza, contemporaneamente, in due domini, gli stessi che rappresentano i due poli della ginocrazia: il Campo delle Erbe( fertilità ) e il Campo del Riposo (morte ) ….! Sebbene il suo pantheon sia andato rapidamente maschilizzandosi, il culto della Dea- Madre è rimasto, più a lungo che in qualsiasi altra cultura, il perno della civiltà egiziana ed il suo fascino si protrae per tutto il periodo del semi-patriarcato, esercitando una interazione continua con la struttura economica e sociale di origine agraria dell’Egitto. , Iside, in particolare, godette di una straordinaria devozione: essa può essere assimilata a tutte le dee egiziane, come è chiaro dall’appellativo di “dea dagli innumerevoli nomi”. E’ la personalità di Iside che viene onorata e celebrata a preferenza delle divinità maschili, in Egitto ed in tutti i paesi che subiscono l’influenza culturale egiziana, sino a Roma.

“….La vittoria senza precedenti del culto isiaco sull’opposizione ufficiale e il suo persistere nei primi tre secoli dell’era cristiana, testimoniano la profonda e sincera emozione religiosa che tale devozione suscitava nei fedeli”. Il culto aveva come scopo di domare la carne per ottenere delle percezioni spirituali più chiare. Questa idea era talvolta poco apprezzata dai mariti che temevano l’avvicinarsi dei “puri dies”,i giorni in cui le loro mogli, per prepararsi ai riti di Iside, andavano a dormire sole su casti letti…

La personalità di Iside aveva una diffusione universale in tutti i centri importanti del vasto impero romano e, soprattutto le donne, trovavano in questa giovane e graziosa regina e madre un oggetto di devozione mistica che soddisfaceva i loro bisogni religiosi più di ogni altra figura sacra….”

(E.O.James: Le culte de la déesse-Mère, Payot Ed. )

Come mai, allora, in Egitto, i diritti delle donne vengono rispettati fino ad un’epoca tarda, la loro libertà sessuale è quasi assoluta, la loro possibilità di fare carriera è quasi unica fra le società dell’antichità? Diodoro Siculo sostiene che il contratto del matrimonio egiziano esige l’obbedienza del marito alla moglie. I beni si trasmettevano per discendenza femminile ed anche in epoca tarda il marito cedeva alla moglie, per contratto di matrimonio, tutti i suoi beni ed i redditi futuri. Lo scriba Satni, di Menfi, si vede rispondere dalla bella che ha chiesto in sposa: “…Io non sono una schiava

 

IL SEMIPATRIARCATO – LA CADUTA

Le donne egiziane si servivano senza ipocrisia non solo della loro libertà sessuale, ma

anche della potenza economica data loro dalla legislazione. L’iniziativa amorosa era una

loro prerogativa come si riscontra in tante lettere e poesie d’amore indirizzate ad

uomini e firmate da donne. E’ lei a offrire il matrimonio:

“…O mio bell’amico, desidero diventare tua moglie e la padrona dei tuoi beni!”

(Briffault: The Mothers)

Come tra gli Ionii e i Cretesi, la donna egiziana circola libera, senza accompagnatori, e mostra il suo corpo nudo; come tra gli Etruschi, partecipa ai banchetti e alle danze e gode di libertà sessuale; come fra i Celti sceglie il marito; come tra i Cretesi, si dedica ad ogni sorta di attività lucrativa e conserva spesso una funzione sacra in tutto ciò che riguarda i funerali e i riti di fertilità e onora due grandi dee: Neith e Iside, che rappresentano aspetti diversi e complementari della Grande Dea, la sua doppia proiezione nei cieli. La giurisdizione la favorisce sino ad un’epoca avanzata. Sotto Dario, la sorella maggiore è ancora la tutrice legale in caso di morte dei genitori: è quello che Will Durant definisce un “matriarcato attenuato”;*

UN’ECCEZIONE: HATSHEPSUT

Hatshepsut, che il padre chiamò sul trono accanto a sé, regnò dal 1501 al 1479 a.C. Riuscì a regnare facendosi redigere una biografia agiografica che la proclamava figlia di Amon-Rà, il quale si sarebbe presentato a sua madre “in una nuvola di luce e di profumo” per annunciarle l’incarnazione –per suo intervento- di una fanciulla che doveva far risplendere il prestigio di Ammone sulla terra.

Ci voleva questo intervento diretto del dio nel processo della procreazione per rendere la principessa uguale ai suoi predecessori reali. Neanche la condivisione del trono con il Faraone-padre poteva sostituire questo diritto divino da cui proveniva quella monarchia che faceva di ogni sovrano un “figlio di Horus” ipso facto, senza bisogno che luce e profumo accompagnassero una tale Annunciazione. Occorreva l’intervento del soprannaturale per rimuovere l’ostacolo del suo sesso di donna nel regno più femminista della terra! Che Hatshepsut sia stata uno dei più grandi nomi della regalità egiziana, che in ventidue anni di regno abbia riparato i danni inflitti al suo popolo dai re Hyksos, che abbia saputo conquistare i mercati delle Indie e dell’Estremo Oriente, aprendo così la via delle spezie e delle perle ai suoi successori sono fatti noti e comprovati storicamente. Hatshepsut –poi- fu la più grande, ma non la sola a regnare in Egitto: ricordiamo Amenardis (sacerdotessa e principessa), Shepenapt III e la figlia di questa, Nitokris.

E’ anche interessante sottolineare che, dalla XVIII dinastia in poi, l’appellativo di “sposa di Dio” viene dato alle regine tebane che diventano sacerdotesse supreme di Amon-Rà, mentre le principesse reali assumono una dignità superiore a quella rivestita da tutte lealtre in precedenza

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